Esiste una figura nel mondo del poker che trascende il concetto stesso di giocatore d’élite. Phil Ivey non è semplicemente un campione: è un’icona del feltro verde, capace di dominare i tavoli da poker più prestigiosi del pianeta per oltre due decenni. Nato il 1° febbraio 1977 a Riverside, California, e cresciuto a Roselle, New Jersey, Ivey è stato descritto come il “Tiger Woods del poker“, un paragone che rende solo parzialmente giustizia alla sua straordinaria carriera. Con 11 braccialetti delle World Series of Poker e guadagni che superano i 54 milioni di dollari, Ivey ha elevato il gioco a una forma d’arte sublime.
Phil Ivey, gli albori di una leggenda: da “No Home Jerome” all’Olimpo del Poker
La genesi del fenomeno Ivey affonda le radici in un’adolescenza votata interamente al gioco. Il nonno gli insegnò le basi del Five Card Stud all’età di otto anni, instillando in lui una passione divorante che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita.
Ma è nei fumosi poker room di Atlantic City che il mito prende forma: appena diciottenne, Phil Ivey utilizzava documenti falsi intestati a “Jerome Graham” per aggirare il limite d’età e tuffarsi nel vortice delle partite cash game. I giocatori abituali lo soprannominarono “No Home Jerome” per la sua presenza quasi ossessiva ai tavoli, una costanza maniacale che tradiva un’ambizione smisurata.
Il salto di qualità arrivò nel 2000, quando al suo primo assalto alle World Series of Poker conquistò immediatamente il suo primo braccialetto nel torneo di Pot-Limit Omaha. Era solo l’inizio di un’ascesa vertiginosa: nei due anni successivi ne avrebbe incamerati altri tre, annunciando al mondo l’arrivo di un talento generazionale.
La sua versatilità è disarmante: Texas Hold’em, Omaha, Stud, varianti miste – nessun formato gli è estraneo, nessun avversario troppo temibile.
Il dominio assoluto: cash game, controversie e il duello con Beal
Se i tornei hanno consacrato Phil Ivey all’immortalità, sono i cash game ad altissime poste a rappresentare il suo vero regno, un immaginario spesso raccontato anche dal cinema, come nel film Poker Face – dove una partita di poker ad alto rischio diventa il fulcro di una narrazione thriller.
Nel 2006 si consumò uno degli episodi più leggendari della storia del poker: il confronto heads-up contro il miliardario texano Andy Beal. Ivey vinse 16,6 milioni di dollari in tre giorni intensissimi, giocando per conto di “The Corporation”, un collettivo di professionisti che si alternavano contro il magnate. Fu una dimostrazione di sangue freddo e abilità tecnica che cementò la sua reputazione come il giocatore più temuto al mondo.
Ma la carriera di Ivey non è stata priva di ombre. Le controversie legate all’edge-sorting – una tecnica di lettura dei dorsi delle carte utilizzata nei tavoli di baccarat – lo hanno visto protagonista di battaglie legali con il Borgata Casino di Atlantic City e il Crockfords di Londra. Il Borgata intentò una causa da 10,1 milioni di dollari, conclusasi con un accordo nel 2020, mentre Crockfords si rifiutò di pagargli le vincite. Episodi che hanno macchiato, seppur parzialmente, un palmares altrimenti impeccabile.
Nel 2017, al primo anno di eleggibilità, Phil Ivey è entrato di diritto nella Poker Hall of Fame, un riconoscimento che nessuno oserebbe contestare. La sua eredità va oltre i numeri: ha ispirato una generazione di giocatori, ha elevato gli standard tecnici del gioco e ha dimostrato che il poker, nelle mani di un maestro, può diventare pura poesia. Oggi, benché meno attivo nei circuiti torneistici, continua a dominare i cash game più esclusivi del pianeta, perpetuando un mito che sembra destinato a non tramontare mai. Phil Ivey non è solo un giocatore: è la personificazione vivente dell’eccellenza nel poker.




