Non sono tanti, anzi sono pochi gli allenatori di calcio stranieri che hanno inciso a fondo nel mondo pallonaro italiano. Lui sì, lui ci è riuscito, quasi subito. Prima di vincere quell’incredibile, storico e forse irripetibile scudetto con Lazio nel 2000 gli era stata appiccicata addosso quell’etichetta antipatica di “perdente di successo”. Sven Goran Eriksson è stato soprattutto un brav’uomo, educato, mai sgarbato. “Mi ha insegnato a voler bene alla gente”, così ha detto Alessandro Nesta qualche giorno fa. Uno dei suoi tanti figli calcistici, che oggi fanno il mestiere che per tanti anni è stato di “Svengo”. A sua volta lui è stato un figlio calcistico di quella straordinaria fucina calcistica che è stata la Sampdoria di Paolo Mantovani. Roberto Mancini è stato il suo figlio prediletto, dopo essersi conosciuti e studiati all’ombra della Lanterna sono andati insieme nella sponda biancoceleste del Tevere, per essere i principali fautori dell’epopea di Cragnotti.
Perdente di successo dicevamo, conseguenza di quell’incredibile scudetto perso con la Roma nel 1986, la finale di Coppa dei Campioni con il Benfica superato dal Milan di Sacchi e di un altro campionato sulla panchina della Lazio perso in volata sempre con i rossoneri nel 1999. Tutto cancellato da quel pomeriggio di ordinaria follia del 14 maggio 2000, quando la pioggia di Perugia lavò via tutte le delusioni calcistiche precedenti. Eriksson è stato molto altro che un grande allenatore per il calcio italiano: il garbo, l’educazione e il fair play anche dopo le più brutte sconfitte, perché lui è stato al di sopra di tutto una brava persona. E così voleva essere ricordato, come una brava persona. Che capiva di calcio, che capiva gli uomini e che ha lasciato uno splendido ricordo di sé in ogni parte dov’è stato a portare un calcio organizzato e che lasciava spazio alla fantasia. Già manchi a questo pazzo mondo pallonaro, grazie di tutto Svengo.